Non ho qualifiche sufficienti a fare un commento di carattere sociologico. Forse sto diventando un vecchio scorbutico, ma a livello pubblico ormai esiste ben poco che per me non sia un’accozzaglia di parole senza senso. L’impegno, poi, è ridotto al minimo: gli artisti fanno esattamente ciò che fanno i politici, mantenendosi sulla superficie, senza lasciarsi coinvolgere davvero in niente, schierandosi secondo le posizioni partitiche più banali. Anche quelli che stanno dalla parte giusta offrono solo slogan, senza impegno.
Quando mi sento parlare, mi rendo conto di non essere poi così attaccato alle mie opinioni. Perciò esiste un altro livello di percezione, ben più profondo di quello delle opinioni. Ecco cosa vuol dire per me scrivere canzoni: liberarsi degli slogan, anche di quelli più efficaci, delle prese di posizione più sofisticate, per giungere a una comprensione, a sensazioni che sono un po’ al di sotto del radar delle opinioni o dell’intellezione.
«È per questo che ci vuole tempo» continua. «Prima di poter scartare un verso, devo scriverlo. Non ho le capacità cognitive necessarie per leggere qualcosa e scartarlo. Devo lavorarci su, scriverlo e poi eliminarlo. Persino se è buono, non posso accettarlo se include uno slogan stereotipato. Non sono interessato alle prese di posizione banali. Perciò non sono attaccato alle mie opinioni, ma in un certo senso sono interessato a quello che posso scoprire frugandovi al di sotto.
«È lì che voglio arrivare.»
Secondo il contadino questo potrebbe essere una linea guida nella marea delle cose dette ovunque. Ignorare se slogan.
Rimarrà il poco di buono che c’è.
(citazioni di L. Cohen, “Il modo di dire addio”)
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